Commercio equo: cosa abbiamo imparato?

Lo sviluppo del commercio equo e di tutte quelle pratiche “virtuose”, che puntano a un miglioramento delle condizioni di lavoro, di salute e sociale delle comunità di produzione, generalmente agricole e del sud del mondo, è passato con molta rapidità dalla teoria alla pratica.

Ad esempio la domanda e l’offerta di caffè “sostenibile” è aumentate notevolmente negli ultimi decenni. Altrettanto rapidamente è aumentata la letteratura che analizza gli effetti degli standard volontari di sostenibilità per il caffè (e di altri prodotti). Ma in realtà si tratterebbe ancora di documenti sulla teoria, sulle supposizioni. Almeno questo è ciò che afferma uno studio del Center for Global Development secondo cui le prove per valutare gli impatti sui piccoli produttori e l’ambiente di tutte queste pratiche rimangono insufficienti. Questo perché solo un esiguo numero di studi utilizza metodi che consentono ai ricercatori di attribuire risultati concreti relativi all’applicazione dei protocolli con le relative certificazioni di sostenibilità.

La studio ha esaminato le ricerche condotte negli ultimi dieci anni (circa un centinaio) sugli effetti originati dagli schemi di sostenibilità promossi da enti come Rainforest o Fairtrade, per vedere cosa abbiamo imparato sull’impatto di tali schemi e quali siano gli effetti positivi sociali e ambientali per i coltivatori che hanno scelto di aderire ai programmi di certificazione.

Nel complesso, la ricerca disponibile suggerisce che i regimi di certificazione possono essere vantaggiosi. Ma il contesto è importante: i piccoli produttori, quelli più poveri e vulnerabili, riescono a rispettare gli standard di sostenibilità solo con un sostanziale aiuto esterno.

Secondo Kimberly Elliott, autrice del documento, ad oggi è impossibile avere un quadro coerente della situazione, perché mancano i dati iniziali. Quando è iniziato il programma di certificazione nessuno si è preoccupato di verificare come lavoravano i coltivatori prima di ottenerla, o di confrontare nel tempo quali fossero le differenze tra aziende certificate e non.

C’è davvero poco monitoraggio o misurazione dei risultati ottenuti”, afferma Kimberly Elliott, “ad esempio, alcuni studi suggeriscono che dopo l’applicazione degli standard di sostenibilità imposti dai diversi enti di certificazione, sono stati utilizzati più dispositivi di sicurezza per i lavoratori. Ma da chi siano stati utilizzati e se questi si siano rilevati realmente efficaci non è chiaro”.

In parte il problema è determinato dal fatto che molti coltivatori di caffè vivono in regioni remote e montuose, estremamente difficili da raggiungere, e quindi l’osservazione diretta sulla loro salute o sull’ambiente, sul tenore di vita o sul loro reddito, fatta su larga scala diventa impossibile.

Rainforest o Fairtrade lavorano in dozzine di paesi in più continenti, il che significa che le valutazioni devono anche confrontarsi con contesti culturali, climatici o normativi molto diversi che possono alterare i risultati finali degli studi.

È innegabile comunque”, aggiunge Elliott, “che quando i consumatori acquistano caffè certificato lanciano un messaggio chiaro: dicono al settore che vogliono e apprezzano il caffè sostenibile. La loro azione indica che desiderano che questi miglioramenti accadano davvero”.

E questo da un lato deve stimolare l’industria a lavorare di più per soddisfare gli standard sostenibili, come in realtà è accaduto in questi anni, ma dall’altro deve essere di stimolo agli enti di certificazione a verificare anche l’efficacia reale dell’applicazione dei loro standard.

Il rischio è che alla lunga i consumatori si chiedano se vale davvero la pena pagare un feed per avere questo tipo prodotti sostenibile, senza che ci siano prove tangibili di un reale miglioramento.